Indagini e perizie svolte sula scena del crimine, sullo scheletro e sulla cella che lo contiene. – STUDY CENTER for LEGALITY SECURITY and JUSTICE
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Indagini e perizie svolte sula scena del crimine, sullo scheletro e sulla cella che lo contiene. – STUDY CENTER for LEGALITY SECURITY and JUSTICE


Tutta la storia, dunque, stava assumendo dei contorni sempre più sfumati e sempre meno solidi man mano che discutevamo del problema, delle piccole conquiste documentali, degli ostruzionismi che andavamo incontrando o dei sospetti sulla genuinità di tutta quanta l’architettura. Da Biraghi reticente allo scheletro che doveva essere per forza di una donna assassinata per gelosia e dunque bellissima! Un po’ troppo… Decidemmo dunque di proseguire, coinvolgendo anche altri soggetti qualificati che potessero offrirci il proprio contributo per cercare di svolgere una analisi “scientificamente supportata” sull’allestimento della Dama Bianca presente nel Museo Criminologico di Roma a partire dal 1934.

Sopralluogo e analisi del sito del presunto ritrovamento dello scheletro.

L’analisi accurata della presunta “scena del crimine”, ovvero del punto in cui secondo la leggenda sarebbe stato ritrovato lo scheletro è stata condotta nel 2019 da Simone De Fraja. Secondo le affermazioni e le indicazioni di Sergio Biraghi lo scheletro venne trovato nell’area interna della fortificazione, l’area adiacente al prospetto murario rivolto a nord ed all’angolo formato da segmenti murari spezzati in prossimità del saliente che oggi affianca il posticcio accesso al recinto. Biraghi, ed ormai la leggenda, narra che i resti vennero rinvenuti in seguito ad un crollo (si dice di “un torrione”). In quest’angolo di cinta non dovevano essere presenti torri o torrioni, come la struttura ormai semicilindrica esistente poco più ad est.

Questa sezione muraria è forse la migliore conservata sia per elevato che per qualità della tessitura muraria, apparentemente tutta originale e coerente con altri parti del recinto, salvo modesti interventi; inoltre questa porzione mostra in più zone la presenza di un intonaco degradatosi in modo omogeno quindi, sostanzialmente, rimasto complessivamente esposto agli agenti nello stesso periodo di tempo. Non si evidenziano parti relativi a crolli od esposizioni relativamente recenti o comunque sezioni murarie dalla differente conservazione. La parte bassa di quest’angolo della cinta mostra tracce di suddivisione in livelli e l’attuale piano di calpestio appare evidentemente rialzato. Apparentemente posticci risultano i setti divisori oggi in essere (differente muratura, pezzatura e utilizzo casuale del laterizio).

É tuttavia plausibile ipotizzare, in quest’angolo della cinta, l’esistenza di un edificio, una struttura abitativa, a pianta quadrangolare, una parete della quale (quella rivolta a nord) era costituita dallo spesso muro di cinta.

Rimane da spiegare, secondo la tesi del Biraghi, allora cosa fosse qui crollato negli Anni Quaranta, se una torre od un grande edificio abitativo, e come si sia potuto smaltire l’eventuale notevole accumulo di macerie atteso che tutto quanto sembra rimasto fermo da lungo tempo. Appare evidente che il modesto ricetto ricavato in quest’angolo di cinta, nelle forme attuali, sia stato ottenuto in un secondo tempo, e per scopi differenti. Che l’individuo, donna o uomo, sia stato imprigionato, con i ferri costrittivi e fatto morire di stenti (questo narra la leggenda), qualunque ne sia stato il motivo (lasciamo stare gli intrighi amorosi), e successivamente murato vivo per continuare il supplizio o la condanna (come potrebbe suggerire l’esistenza di un contenitore in terracotta per l’acqua e prolungare l’agonia) appare alquanto improbabile. Parrebbe semmai più probabile che lo stesso possa essere stato obliterato nella muratura (si sarebbe dovuto ricavare una nicchia in spessor di muro) una volta deceduto: ma a questo punto apparirebbero superflui i ferri di contenzione che, comunque, non appaiono adeguati allo scopo e non sembrano nemmeno coevi all’epoca in cui si è voluto contestualizzare la leggenda. Già, infatti, la leggenda è posta in un generico XVI secolo, più o meno, sembrerebbe dal sol fatto di aver trovato della ceramica datante. Ma anche sulle sorti di tali reperti non vi è traccia (ad esempio una relazione del rinvenimento e nemmeno nel documento di acquisizione del museo), se non scenica, nell’allestimento museale corredato, vieppiù, di una lucerna in metallo. Di questi reperti di corredo, anche la leggenda, nelle forme più genuine, non parla mai.

Non vi è altrettanta traccia negli Statuti del tempo o nella prassi di giustizia criminale, salvo imponderabili episodi creativi, che qualcuno potesse essere giustiziato e condannato a simile sorte; a meno che non si trattasse di un omicidio il cui corpo doveva essere fatto scomparire in breve tempo e non già il frutto di una sentenza espressione di un giudizio secondo legge. Corpi murati ne sono stati trovati occultati all’interno di pareti, ridotti al minimo ingombro, a volte con la calce direttamente a contatto con i tessuti che si sono conservati (e verosimilmente non avevano i ferri agli arti, una lucerna e una brocca per l’acqua). Soprattutto la calce e l’isolamento anaerobico avrebbero restituito un corpo in condizioni conservative ben diverse. Qualora non fossero state trovati gli oggetti di corredo (scenico), qualora le misure di contenimento fossero state adeguate, a prima vista il ritrovamento sarebbe potuto apparire come una capsula del tempo relativa ad una “prigionia dimenticata” e non ad una condanna con tutto il resto degli orpelli, come richiede la leggenda.

Analisi dei ceppi ai polsi e alle caviglie dello scheletro

Studiando il materiale disponibile in Internet, Simone De Fraja reperì una pubblicazione fondamentale in materia di collezionismo strumenti di contenimento. Contattò l’autore per esporgli la questione della Dama Bianca. J.M. Robin è uno studioso francese, esperto e collezionista, autore di “Entraves, Fers & Menottes”, opera in quattro volumi corredata oltre mille foto di pezzi storici anche appartenenti alla propria collezione. Per nulla sorpreso ed anzi incuriosito dalla richiesta Robin rispose nel giro di qualche giorno:

«J’ai vu les photos, mais il y a pour moi des incohérences. Le squelette a les mains placées dans des menottes beaucoup trop grande ! Ce sont des bilboes ou ceps qui étaient normalement destinés à être placés aux chevilles du prisonnier. Cette pièce ne comporte pas de serrure. Les chevilles sont placées dans des entraves équipées d’une serrure à pêne avec ressort(s) en paillette et clé poussoir. […] Ce moyen de contention est apparu au XVIe siècle et à été utilisé jusqu’au XVIIIe. Mais cette pièce était conssue pour les chevilles des prisonniers et non pas pour les poignets! De plus, la teinte de ces pièces me semble avoir été repeintes en noir, ce n’est pas la couleur d’origine du fer. (voir photos jointes). Il est clair que les poignets pouvaient facilement sortir du bilboes. Je pense qu’il s’agit ici d’une mise en scène pour décor d’une cellule d’époque». (traduzione): «Ho visto le foto, ma ci sono incoerenze per me. Lo scheletro ha le mani entro manette troppo grandi! Questi sono vincoli o ceppi che erano normalmente destinati a essere collocati alle caviglie del prigioniero. Questo strumento non ha una serratura. I tasselli sono posizionati in catene provviste di un chiavistello con molla e chiavetta. […] Questo mezzo di costrizione apparve nel sedicesimo secolo e fu usato fino al diciottesimo. Ma questo pezzo era concepito per le caviglie dei prigionieri e non per i polsi! Inoltre, il colore di questi pezzi mi sembra sia stato ridipinto di nero, non è il colore originale del ferro. (vedi foto allegate). È chiaro che i polsi potrebbero facilmente uscire dai ceppi. Penso che questa sia una messa in scena per una cella d’epoca (lunedì 24/12/2018 10:22)».

Simone De Fraja chiamò in causa anche l’amico Massimiliano Righini, attuale Vicepresidente della Sez. Emilia Romagna dell’Istituto Italiano dei Castelli, qualificato studioso di oplologia, che fornì queste riflessioni sui ferri che cingono i polsi nell’allestimento Dama Bianca nel museo criminologico di Roma:

«…come anticipato per le vie brevi cercherò di fornirti alcune considerazioni, basate solo sulla mera analisi delle immagini, in merito allo scheletro di donna ritrovato negli anni trenta nel palazzo di Poggio a Catino, e ad oggi esposto presso il Museo Criminologico di Roma. Lo scheletro presenta, ai polsi ed alle caviglie dei ceppi di costrizione, denominati nella letteratura specifica anche come “gambali”, ideati per essere utilizzati negli arti inferiori. Questi erano costituiti da un perno centrale su cui si infilavano gli anelli di costrizione. Un lucchetto posto ad una delle estremità serrava il tutto. Lo stesso sistema poteva essere impiegato per la costruzione di manette che impiegavano anelli di contenzione più stretti. Sullo scheletro di Poggio a Catino sono presenti due strumenti di contenzione del tutto simili a cavigliere. Infatti anche quelli che serrano i polsi, anche se forse leggermente più piccoli rispetto agli altri, sembrano troppo grandi per poter bloccare con efficacia i polsi di una donna. Entrambi i ferri si presentano nelle forme diffuse, nel mondo occidentale, a partire dal XVIII secolo con una continuazione di uso sino all’inizio del Novecento. Un riscontro iconografico di questi strumenti è possibile con quelli raffigurati da Francysco Goya in due acqueforti databili tra il 1808 ed il 1814. Lo stato di conservazione è cattivo, entrambi presentano una forte corrosione superficiale forse frutto di un ritrovamento archeologico……»

Perizia di Priscilla Zanutel sul presunto sesso dello scheletro

La valutazione sul sesso della persona a cui apparteneva lo scheletro conservato nel Museo Criminologico rappresentava un importante, forse determinante accertamento per valutare l’attendibilità dei racconti sulla Dama Bianca. Il team ha quindi richiesto una relazione “formale” antropologica della D.ssa Priscilla Zanutel, Archeologa e Presidente dell’A.P.S. Rerum Memoria (Roma) che per il suo lavoro ha maturato una certa esperienza sullo studio di reperti ossei anche molto antichi. Questo il testo della sua relazione riportato integralmente.

«…L’incarico di studio è giunto da parte dell’equipe sui cold cases del C.S.L.S.G. sul presunto omicidio di una donna, omicidio che alcune fonti letterarie e giornalistiche farebbero risalire tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500. Lo studio è avvenuto attraverso una disamina su dei reperti fotografici e l’obiettivo primario del mio incarico era quello di cercare di stabilire con buona approssimazione il sesso dell’individuo in questione. Questa tipologia di esame, per essere particolarmente accurata, richiede in verità uno studio diretto sugli elementi ossei; ma poiché questo non è stato possibile, a causa dell’irreperibilità del reperto, dovuta all’impossibilità di accedere ai locali del Museo Criminologico di Roma dove il reperto (lo scheletro) risulta conservato, le mie analisi si sono svolte cercando di prendere in considerazione elementi visibili dal supporto assegnatomi. Dalle immagini fornite non è stato possibile fare una valutazione sul sesso dell’individuo utilizzando il bacino, giacché la sua postura e l’angolazione della foto non ne permettono un’osservazione ottimale. Passando al cranio, quindi, sono stati presi in considerazione degli aspetti con un buon grado di attendibilità: arcata sopraccigliare (A), processo zigomatico (B), processo mastoideo (C), angolo goniale (D). L’arcata sopraccigliare (o sopraorbitale) si presenta molto robusta e marcata; il processo zigomatico è anch’esso poderoso e spesso; il processo mastoideo è molto grande e pronunciato; la mandibola è robusta e l’angolo goniale (o mandibolare) è marcato. Tutte queste caratteristiche sono proprie degli individui di sesso maschile. Con buona probabilità quindi, si potrebbe affermare che il corpo preso in esame sia appartenuto ad un uomo anziché ad una fanciulla.»


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